Con piacere pubblichiamo, con l’autorizzazione dell’autore, gli articoli di Carmine Cioppa apparsi sul Corriere dell’Irpinia, diretta da Gianni Festa, nel mese di luglio 2023, riguardanti le vicende della sparizione del Banco di Napoli avvenuta agli inizi del 2000. Gli articoli, oltre ad essere interessanti per una lucida ricostruzione dei fatti, sono la testimonianza viva di una persona che ha vissuto quelle vicende. (N.d.R.)

Il Sud sbancato

di Carmine Cioppa

Parte prima

Un volume, edito qualche anno fa a cura degli economisti Pietro Massimo Busetta e Rainer Masera, raccoglie i contributi di cinque esperti su sette argomenti tuttora di grande attualità per il nostro Mezzogiorno.

Prima di elencarne sinteticamente i più significativi riporto il titolo del volume con il relativo occhiello:

“MEZZOGIORNO BANCO-ROTTO: Il sistema bancario del Sud non c’è più, è stato espropriato dalle banche del Nord

La soluzione adottata per far fronte ai problemi legati al territorio è stata quella di azzerare il sistema, sostituendolo con operatori esterni “.

Il “Banco” rende plasticamente l’attività svolta, ai tempi dei romani, da coloro che commerciavano in denaro, banchieri o cambia-valute, che disponevano il denaro necessario per gli affari della giornata su un banco chiamato mensa argentaria; quando il danaro finiva, il banco veniva rovesciato. Da tale uso derivano i termini Banchiere e Bancarotta, che indica l’impossibilità di un imprenditore di assolvere ai propri impegni.

Il primo argomento è connesso, perciò, con la limitazione del “denaro destinato alle esigenze giornaliere” con la conseguente domanda se un sistema bancario di dimensioni contenute è più efficiente, in base al principio del “piccolo è bello”, o sia invece preferibile una concentrazione di grandi strutture.

La crisi finanziaria del 2007 – è il secondo argomento –  ha posto, per le piccole banche, l’esigenza dell’innovazione tecnologica e della regolamentazione bancaria che impone gli stessi processi organizzativi e di controllo delle grandi banche.

Terzo argomento : la difficoltà  di selezione, nel Mezzogiorno, da parte delle banche, della domanda di credito di imprese di piccole dimensioni, non capitalizzate, in un contesto caratterizzato da opacità di bilanci, per la prevalenza di attività non dichiarate e da collegamenti con la criminalità organizzata.

Ed ancora i costi per la collettività, ed il Mezzogiorno in particolare, delle due grandi crisi strutturali del sistema bancario nazionale (1992-95 e 2007-2010), nonché il progressivo e costante allontanamento dei centri decisionali, gravoso per il Mezzogiorno in termini di perdita di capitale umano, che ha determinato anche  la fine della funzione sociale della banca nel proprio territorio di riferimento.

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È difficile, direi impossibile, immaginare lo sviluppo economico e sociale di un territorio privo di un sistema bancario diffuso ed efficiente.

Ancor più quando, invece di un territorio, parliamo di un’intera area come quella del Mezzogiorno.

So bene che le Banche, in particolare quelle grandi, come ogni impresa, mirano al profitto e lo fanno localizzandosi nelle aree più ricche del Paese; ma se proviamo a leggere questo principio da un altro angolo visuale, scopriremo che è proprio il sistema bancario uno dei principali elementi che contribuisce a rendere ricchi quei territori.

È compito perciò della politica riequilibrarne l’allocazione ed il dimensionamento.

Come si spiega, allora, che il Mezzogiorno sia stato privato, nella totale indifferenza del ceto politico ed imprenditoriale, del Banco di Napoli, l’unico grande Istituto di riferimento?

La storia viene da lontano.

Eduardo Bennato, nella sua canzone “La storia di Nico Nanco” recita

“1859, muore il vecchio re Borbone

e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione.

E’ il momento di approfittare di questo vuoto di potere,

di quel regno in mezzo al mare difeso solo dalle sirene.

E u Banco ‘e Napoli è l’ideale per rifarsi delle spese,

per coprire il disavanzo della finanza piemontese”.

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 È il primo scippo, a cui fa seguito, con un salto di circa 140 anni, quello del 1996, scientemente organizzato.

Per capirne di più, occorre risalire all’improvvisa soppressione della Cassa per il Mezzogiorno, detta anche Casmez, messa in liquidazione dal 1° agosto 1984.

La Casmez, rilevo dalle fonti, era un ente pubblico italiano creato dal Governo De Gasperi VI, per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d’Italia, allo scopo di colmare il divario con l’Italia settentrionale.

Venne istituito con legge 10 agosto 1950 nº 646, come ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico allo scopo di predisporre programmi, finanziamenti ed esecuzione di opere straordinarie dirette al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale, originariamente da attuarsi entro un periodo di 10 anni. L’intervento fu poi più volte prorogato con successivi interventi legislativi.

L’idea venne, nel 1950, al meridionalista Pasquale Saraceno, e ad alcuni suoi collaboratori quali Donato Menichella, Francesco Giordani, Cenzato, Rodolfo Morandi e Nino Novacco, già fondatori della Svimez. Nelle intenzioni, l’ente intendeva ricalcare le agenzie di sviluppo locale avviate negli Stati Uniti d’America durante il New Deal, (letteralmente «nuovo patto»), cioè il piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937, allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione che aveva travolto gli Stati Uniti d’America a partire dal 1929 (il «Giovedì nero»).

Uno degli strumenti di pianificazione utilizzati per la finalizzazione degli interventi era il cosiddetto piano A.S.I., ovvero un piano per la creazione di Aree di Sviluppo Industriale: esso prevedeva l’istituzione di consorzi, realizzati ai sensi della legge 29 luglio 1957 nº 634 (“Provvedimenti per il Mezzogiorno”), nella tipologia di piano settoriale, promossi da Comuni, Province e Camere di Commercio per l’avvio dello sviluppo industriale e la realizzazione di infrastrutture di base nelle aree coinvolte dall’azione della Cassa per il Mezzogiorno.

Il finanziamento del piano fu stabilito in 100 miliardi di lire all’anno per i dieci esercizi dal 1951 al 1960: in complesso mille miliardi di lire, subito aumentati nel 1952 a 1.280 miliardi da utilizzare nel dodicennio 1951-1962.

Intorno al 1950 lo scontro tra governo ed opposizione era particolarmente aspro. Non mancò, perciò, nel blocco socialista-comunista, la critica, basata, a detta delle sinistre, sul fatto che, più che perseguire risultati, la Cassa per il Mezzogiorno sarebbe stata una maniera per favorire politiche clientelari della Democrazia Cristiana.

Il risultato iniziale della Cassa non fu discutibile per quanto riguarda l’utilizzo dei capitali pubblici, considerando l’arretratezza, nel 1950, del Sud rispetto al resto del Paese in termini di risorse infrastrutturali e reddito pro capite.

Successivamente la politicizzazione degli apparati comportò un degrado e una bassa qualità della spesa, compresi fenomeni diffusi di illegalità (finanziamenti a imprenditori, tramite appalti, allo scopo di sviluppare imprese nel meridione rivelatesi poi imprese “fantasma”).

Quello che interessa ai nostri fini è che il Banco di Napoli aveva anticipato quasi per intero gli importi ai beneficiari dei prestiti e si trovò difronte all’impossibilità di rientrare di quelle somme, stimate in circa 7 miliardi di lire dell’epoca, erogati ad oltre 40mila aziende, per lo più piccole imprese artigianali ed agricole.

Quei sette miliardi, anche se irrecuperabili, non avrebbero potuto determinare comunque la crisi del Banco di Napoli, un grande Istituto, punto di riferimento del Mezzogiorno.

Ma a quei sette miliardi, e per lo stesso meccanismo, se ne aggiunse un ammontare ben maggiore  quando l’Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno (AgenSud) istituita con la legge 1º marzo 1986 nº 64, sostituì la Cassa negli obiettivi e nelle funzioni e fu soppressa a sua volta con la legge 19 dicembre 1992 nº 488, a decorrere dal 1º maggio 1993, lasciando al Ministero dell’economia e delle finanze il compito di coordinare e programmare l’azione di intervento pubblico nelle aree economicamente depresse del territorio nazionale.

Per determinare l’ammontare dei crediti non rientrati occorre considerare che il Banco di Napoli, storicamente banca trainante dell’economia del Mezzogiorno, si era fatto carico si sopperire al vuoto che si era creato con l’abolizione delle leggi agevolative per il Mezzogiorno concedendo anticipazioni per circa 3000 miliardi, soprattutto alle Piccole e Medie Azienda del territorio.

 Va aggiunto che il 1993 è l’anno nero di un difficile decennio che va dal ’91 al 2002; la lira perde mediamente un terzo del valore nel cambio col dollaro e col marco tedesco, ed il PIL scende del 20% fino ad arrivare alla più colossale svendita di un patrimonio pubblico, ben 91 miliardi di euro in privatizzazioni.

Parte seconda

Qualche anno prima dell’istituzione dell’Agensud, nel 1983, Ferdinando Ventriglia, “il Professore”, diventa Direttore Generale del Banco di Napoli, di cui assumerà poi il ruolo di Amministratore Delegato e Presidente del Consiglio di Amministrazione.

È, sul piano oggettivo, un periodo di grande sviluppo del Banco, che, gradualmente, aumenta il numero degli sportelli soprattutto al Nord, assume respiro internazionale con il potenziamento della rete estera, si trasforma in Spa e raggiunge risultati notevoli anche sul piano economico; insomma comincia a dar fastidio ai grandi Istituti.

Gli incontri del lunedì nel grande Salone Miraglia danno l’idea della capacità del “Professore”, che si guadagna l’appellativo di “Viceré di Napoli”,  di intessere relazioni con il gotha degli economisti e dei politici di tutti gli schieramenti per un sostegno allo sviluppo del Banco e, con esso, del Mezzogiorno.

Fu proprio Ventriglia che, lo si ricorda, riusci a sventare l’acquisizione del Banco da parte di Arcuti (IMI) che aveva offerto circa 200 miliardi  (di lì l’idea  di ampliare l’operatività del Banco e renderlo più grande con il famoso progetto  dell’apertura di 1.000 minisportelli) e che successivamente si era mosso con il Banco di Roma per la formazione di una grande Banca del Centro Sud con l’ acquisto di warrant Bancroma per svariati miliardi; operazione questa che, come vedremo in seguito, fu oggetto di contestazione in sede ispettiva, nonostante che all’epoca fosse stata regolarmente denunciata a Bankitalia.

warrant tecnicamente sono strumenti finanziari quotati in Borsa che consistono in un contratto a termine che conferisce la facoltà di sottoscrivere l’acquisto o la vendita di una certa attività finanziaria sottostante ad un determinato prezzo e ad una scadenza stabilita; insomma una specie di scommessa sull’aumento o la riduzione di valore di un determinato prodotto.

Tutto procede bene fino al momento dell’approvazione del bilancio del 1993, quando Costagliola,  giudice per le indagini preliminari (gip) del Tribunale di Napoli, “sospende” per due mesi Ventriglia, allora Presidente, per un presunto “abuso d’ufficio” per aver favorito, secondo l’accusa,  la nomina del Prof. Roberto Marrama, a vice Presidente della Fondazione Banco di Napoli, che controlla il 70% dell’Istituto.

Il dato certo  è che, da quella brutta storia,  Ventriglia esce con le mani pulite; quello tuttora incerto è a quale  delle forze politiche dell’epoca vada attribuito il tentativo di lottizzazione del Banco.

Sta di fatto che  quella sospensione temporanea, per il venir meno dei richiesti requisiti di “onorabilità” per ricoprire la carica di Presidente, priva  l’Istituto di una figura forte e crea le premesse per lo smantellamento del Banco.

Cosa che avverrà puntualmente a febbraio del ’95, dopo la scomparsa, a dicembre del ’94, del “Professore”.

La Banca d’Italia, Organo di Vigilanza sul sistema bancario, avvia un’ispezione che durerà ben 11 mesi con un progressivo inasprimento dei rapporti con la dirigenza del Banco. L’ispezione, infatti, ha inizio in un clima tutto sommato di “collaborazione”, ma  dopo alcuni mesi, siamo ad inizio luglio, a seguito di una riunione delle compagine ispettiva a Roma, il clima cambia radicalmente e l’equipe, rafforzata con l’arrivo a Napoli di ulteriori 10 ispettori (buona parte all’area crediti) diventa quasi di “persecuzione” con esternazioni spesso poco piacevoli sui comportamenti degli uomini del Banco.

Il tutto si traduce nella richiesta di rettifiche di valore in misura consistente, in molti casi non giustificati in un contesto di continuità aziendale. A  nulla valgono le osservazioni sul perché vengano richieste al Banco accantonamenti più consistenti su posizioni comuni  nel Sistema e per le quali le altre Banche fanno ricorso a criteri di valutazione meno rigorosi.  Inoltre, l’ispezione concentra la sua attenzione anche  su grossi Gruppi nazionali che per gli anni successivi saranno protagonisti sullo scenario economico nazionale e i cui esponenti  occupano posti di tutto rilievo anche nel mondo finanziario.

Ciò che meraviglia è che nel dicembre successivo, in sede di commiato, il Capo equipe ci tiene a sottolineare che le strutture del Banco hanno offerto  scarsa collaborazione nello svolgimento dei lavori,  considerazione con la quale, peraltro,  ha inizio il verbale ispettivo poi consegnato al Banco, quasi ad evidenziare un giudizio  a dir poco negativo sull’alta Direzione del Banco.

Non va trascurato che un dirigente della Vigilanza, cioè dell’Organo che orienta l’ispezione partecipa di diritto alle riunioni del Consiglio di Amministrazione e che alla stessa Vigilanza vengono trasmesse, le delibere di affidamento che eccedono il rapporto col patrimonio disponibile del Banco.

Il risultato finale certifica la fine del Banco come azienda in quanto le perdite sui crediti imposte sono tali da non consentire la continuità aziendale se non in presenza di un forte piano di ricapitalizzazione.

È davvero enorme l’ammontare di crediti  “irrecuperabili”, che, a distanza di anni, non si rileveranno tali.

Quell’ispezione costituisce un duro atto d’accusa alla gestione Ventriglia, cui segue essenzialmente il ricambio di tutti i vertici della spa con nomina di Federico Pepe alla direzione generale e Carlo Pace (futuro deputato d’Alleanza Nazionale) alla presidenza. Minervini, quale presidente della Fondazione Banco di Napoli (azionista di maggioranza del Banco di Napoli spa), ritiene necessario, per superare la crisi,  un intervento del Tesoro  per attuare una giusta ricapitalizzazione del Banco e si batte strenuamente affinché venga riconosciuto il valore di avviamento della società così da evitare la completa esautorazione della Fondazione, che comporterebbe un azzeramento del Capitale Sociale e anche ingenti danni per gli azionisti di minoranza.

Intanto il Tesoro, tramite il decreto-legge Dini, decreta una ricapitalizzazione pari a 2283 miliardi per il Banco, cui però fa necessariamente seguito l’azzeramento del Capitale Sociale e l’ingresso del Tesoro in qualità di azionista di maggioranza finché non si giunga alla privatizzazione anticipata al 1997 (prima prevista per il 1998).

È il periodo in cui gli economisti scoprono il nuovo termine della “bad bank”, una banca virtuale che gestisce i  crediti “cattivi”, cioè inesigibili, tramite la Sga (Società Gestione Attivi), finanziata dal Tesoro per acquistarli.

La Banca d’Italia impone ai nuovi vertici del Banco, inclusi i nuovi responsabili delle Aree Credito, Finanza, Personale e Contabilità un piano di risanamento che si basa  fondamentalmente sulla cessione dei crediti “inesigibili” alla richiamata Sga, nonché la contestuale vendita di tutte le attività del Banco considerate non strategiche   tra cui la rete delle filiali del Centro Nord, gli immobili di proprietà e le partecipazioni.

La cessione dei crediti inesigibili è condotta con la massima spregiudicatezza sotto la guida del nuovo Direttore Centrale dei Crediti di provenienza BNL (e non è un caso come vedremo di seguito). I Titolari di filiale, I Capi Area e gli stessi Capi dei vari  Servizi Crediti vengono sollecitati a trasferire alla nuova società  anche posizioni che sicuramente non hanno tutte le caratteristiche di irrecuperabilità, come quelle garantite da primari Stati e sui quali la SGA realizza successivamente importi maggiori di quelli della cessione.

A distanza di anni la SGA recupera la massima parte dei crediti all’epoca valutati come irrecuperabili, nonostante la sua maxi struttura con costi non trascurabili  e con il coinvolgimento di una pletora di consulenti esterni, in prevalenza legali, ottimamente retribuiti.

Il dato di sintesi è che la Sga si  accolla oltre 6500 miliardi di crediti inesigibili che il San Paolo di Torino  ha successivamente  recuperato al 94%.

Anche la cessione delle altre attività avviene a prezzi di saldo; emblematico il ricavo, davvero irrisorio, per la vendita delle filiali del Centro Nord, con relativi immobili, alla Popolare di Brescia e di quelle di Genova, Venezia, o Torino, solo per citarne qualcuna.

Si sarebbe potuto procedere alla vendita di questi beni – materiali ed immateriali – con una vendita all’asta, sconsigliata dal pericolo dell’impatto sul sistema bancario italiano di un colosso estero.

In tale contesto fu anche ceduta la partecipazione del Banco nella Banca d’Italia a conferma  che si volle far scomparire il Banco dallo scenario finanziario.

Da tutto questo processo venne fuori una nuova banca di dimensioni molto più ridotte con un attivo di bilancio che comunque era in grado di supportare i costi di gestione nel frattempo, come sopra descritto, ridotti all’osso, compresi quelli notoriamente più rilevanti di personale.

I dati prospettici davano il Banco in utile nell’immediato futuro, pur in assenza di un piano  strategico  di crescita e di indirizzi operativi con la nuova Direzione Crediti  impegnata  a discreditare la vecchia gestione.

 

Dopo tale processo di “pulizia dei conti” il Banco si presentava come una azienda di credito di medie dimensioni, con una capillare rete di filiali nel Mezzogiorno e  qualche filiale nel Centro Nord, come Milano e  Bologna.

Volendo si sarebbe potuto far crescere quell’azienda per assicurare un’adeguata assistenza creditizia alle imprese del  Mezzogiorno in considerazione della profonda conoscenza del territorio e, soprattutto del legame sempre profondo, rimasto intatto nonostante tutto, che legava tra il Banco e la sua clientela. Ne è prova la constatazione che in quegli anni terribili il Banco non perse una lira di deposito a conferma della fiducia dei depositanti. Il che impressionò non poco sia l’Amministratore Delegato, che gli stessi nuovi amministratori di nomina del Tesoro, al punto che il Prof. Ferro Luzzi suggerì di non eliminare il nome del Banco di Napoli dalla configurazione della nuova Banca che doveva eventualmente sorgere.

Tale soluzione avrebbe permesso al Mezzogiorno di poter contare ancora sulla sua banca che fin dalla sua origine aveva assicurato una capillare assistenza alla sua economia.

Ma evidentemente gli obiettivi del Tesoro erano ben altri!

Parte terza

Sul destino del Banco, pesa , infatti,   un’altra coincidenza. Il Ministro del Tesoro e del Bilancio    del Governo Prodi (17/5/96 – 21/1/98) è Carlo Azeglio Ciampi, che diventerà Capo dello Stato, e che era stato , prima Direttore Generale (16/7/78- 7/10/79) e, poi, fino al ’93, Governatore della Banca d’Italia.

È “giusto” che si faccia carico anche del periodo difficile di un altro Istituto di Credito “pubblico”, la Banca Nazionale del Lavoro, che, tra l’atro, in quel periodo è coinvolta nello scandalo della Filiale di Atlanta, in Georgia, per i finanziamenti illeciti a Saddham Hussein per l’acquisto di armi da utilizzare nella guerra con l’Irak.

In un articolo su il quotidiano “Il Danaro” del 12/6/2019, Paolo Pantani, scrive, tra l’altro:  “La prima cosa della vicenda del Banco di Napoli, la più sconcertante, fu l’acquisto per una manciata di fave, è il caso di dirlo, dello storico Banco di Napoli da parte della Banca Nazionale del Lavoro, all’epoca alle prese con lo scandalo della filiale del BNL di Atlanta, governata da Claudio Ciampi, figlio dell’ex presidente della Repubblica, l’unico della filiale di New York della BNL che non fu licenziato. Una vicenda oscura su cui mai si è realmente voluto far luce: un buco gigantesco e il forte odore di traffici d’armi, per quella BNL allora guidata da Nerio Nesi. BNL riuscì ad evitare il crac proprio grazie alla super operazione Banco di Napoli: un vero acquisto a prezzi di saldo, 60 miliardi circa di vecchie lire, neanche il costo di Maradona.

Ma eccoci al secondo tempo, quando BNL, dopo appena un anno, rivende il ‘pacco’ Banco Napoli, ben infiocchettato, al gruppo Imi-San Paolo. Ma con due zeri in più, quasi 6 mila miliardi di lire. Un miracolo degno del San Gennaro più in forma, per chi crede ai santi e ai miracoli. Un vero genio della finanza può organizzare tutto questo, manco il mercato della droga riesce a realizzare questi lucrosi profitti. Il sospetto che l’operazione serviva a coprire il buco nero della filiale BNL di Atlanta è più che fondato, la plus-valenza è proprio il valore finanziario del buco da coprire, una ragion di stato insomma, la BNL era totalmente pubblica. Di fronte a tutto questo disastro evidente per il Meridione, la opinione pubblica, la classe politica napoletana, i sindacati tacquero, tutti supini, statici e passivi. Solo l’ex senatore Augusto Graziani, insigne economista, protestò vivacemente e ritirò il suo conto corrente al Banco di Napoli”.

Ed ancora, su un giornale del 2016, appare un’altra notizia “chi è Claudio Ciampi? I giornali online ci dicono solo che è il figlio del presidente Carlo Azeglio Ciampi. Ma c’è un po’ di reticenza di troppo. Come spesso purtroppo accade sovente con le vicende dei Presidenti italiani negli ultimi anni. La nostra memoria ci dice invece qualcos’altro; ma anche la stessa Wikipedia. È quel Claudio Ciampi, coinvolto 25 anni fa nello scandalo BNL Atlanta/Drogul, un fiume di danaro che arrivava a Baghdad, che in molti cercarono di nascondere. Claudio Ciampi, dirigente della BNL di New York figlio di Carlo Azeglio, in quegli anni detentore di cariche apicali in Italia (Governatore di Bankitalia, Ministro del Tesoro, Premier, poi Capo dello Stato), ebbe i clamori delle cronache italiane e mondiali in quanto la sede di Atlanta della BNL da New York non sembrava essere stata idoneamente vigilata”.

   Solo sospetti?

Il Banco di Napoli è costretto a cedere il 60% del suo capitale e,  con una solerzia fuori dal   comune, il ministro del Tesoro Ciampi organizza un’asta che dovrebbe  consentire alla Bnl, con un’Opa di 61 miliardi, l’acquisizione del controllo del Banco di Napoli.

C’è un grave errore, però, al quale porre rimedio : in base al principio delle “sofferenze allargate”, la Bnl dovrebbe scritturare a crediti inesigibili la maggior parte di crediti vantati verso le stesse aziende  già affidate dal Banco di Napoli.

Dal cilindro, spunta l’Ina Agenzia Assicurativa dello stesso gruppo ugualmente in difficoltà, controllata da Bnl, che non ha questo obbligo di segnalazione, con  funzione di capofila della cordata.

Passaggio successivo :  rivendita del 56 % dell’istituto di credito napoletano per una cifra pari a 3600 miliardi ed  acquisto dal San Paolo di Torino con l’acquisto da BNL e INA, con successiva  OPA di 6000 miliardi per l’acquisto di tutto il capitale del Banco di Napoli, con assegnazione 2.400 miliardi alla Fondazione Banco di Napoli.

Una volta realizzata la vendita, il Banco di Napoli viene soppresso, la BNL si salva da una situazione di sicuro fallimento e il San Paolo di Torino, ormai Intesa San Paolo, diviene la Banca più importante d’Italia.

Il tutto con l’avallo del Presidente della Repubblica, del Ministro del Tesoro e del governatore   della Banca d’Italia, uomini che all’epoca rappresentavano i pilastri delle istituzioni.

    E i nostri politici?

    Non mossero un dito, a conferma del “doveroso rispetto” verso i poteri forti.

C’è di più. Nel ’94  Ciampi scelse Napoli come sede del G7, il Gruppo  dei sette maggiori Stati economicamente avanzati del pianeta.

I malpensanti avrebbero detto che aveva qualcosa da farsi perdonare, ma Bassolino, all’epoca Sindaco di Napoli, non apparteneva a quella categoria e conferì a Ciampi la cittadinanza onorario, oltre a consegnarli una medaglia d’oro.

Fine della storia.

Carmine Cioppa
Dirigente bancario in pensione.
Deve la sua formazione ad un’esperienza trentennale maturata nel Banco di Napoli, in cui fu assunto nel 1961. In tale Istituto ha svolto ruoli di responsabile di varie strutture sempre più importanti, fino a ricoprire incarichi apicali nel Servizio Esteri della Direzione Generale e successivamente nella Direzione della più importante ed, all’epoca, unica sede, quella di Napoli, in via Toledo, con il coordinamento di   41 agenzie ed oltre 1200 collaboratori.
Dimessosi dal Banco, ha condiviso il processo di fusione fra Cassa di Risparmio di Roma/Banco Santo Spirito/Banca di Roma/ Unicredit. In quest’ultimo gruppo bancario è stato responsabile dell’intera Area sud, fino alla Sicilia. Ha collaborato con il Prof. Michele Sandulli nella Società So.re.sa., Società in house della Regione Campania, portando a termine una complessa operazione di cartolarizzazione dei crediti vantati da fornitori di beni e servizi nei confronti delle Aziende Sanitarie della Campania.